BOLOGNA. Nell'anno di Raffaello Sanzio, a 500 anni dalla sua morte (Urbino, 28 marzo o 6 aprile 1483 - Roma, 6 aprile 1520), diamo spazio a questa riflessione di Giancarlo Graziani, Art Advisor e Docente di Economia dell'Arte, incentrata sulla circolazione e attribuzione di alcune celeberrime opere a attribuite al Maestro rinascimentale.
di Giancarlo Graziani di Montepulciano
Docente Aggiunto di Economia dell'Arte
Fondatore e Coordinatore attività Ce.St.Art. - Centro Studi sull'Economia dell'Arte
Il 6 aprile 1520 morì a Roma, capitale dello Stato della Chiesa regnante Papa Leone X de' Medici, l'uomo Raffaello di Giovanni Santi da Urbino e nacque il mito Raffaello che Giorgio Vasari così definì: "Di costui fece dono al mondo la natura quando vinta dall'arte per mano di Michelagnolo Buonarroti, volle in Raffaello esser vinta dall'arte e da i costumi insieme". Tale insieme di virtù ha lasciato mirabili opere che, già desiderate quando lui era in vita, divennero oggetti di culto dopo la sua scomparsa, e tali sono rimaste. Una sterminata bibliografia si è occupata del mito raffaellesco ed il voler attribuire delle opere alla sua paternità ha portato nel corso dei secoli gli autori a riconoscere la sua mano dove non c'era e a non tenerne conto anche nei casi in cui le carte dicevano il contrario. D'altra parte nei secoli la volontà e l'avidità di possesso di dipinti del Sanzio è sempre stata così intensa che andava soddisfatta. Ed è ovvio considerare che chi, proprietario o curatore, aveva in collezione opere presunte raffaellesche, stilisticamente scarsamente avvicinabili o maldestramente attribuibili all'Artista, non era certo disposto a riconoscerne la non autografia arrivando a negare perfino l'esistenza di un originale pur di dire che quella copia, seppur non eccelsa, era opera autografa di Raffaello, fatta però con l'aiuto dei suoi migliori allievi e giustificando tali aiuti con i molteplici impegni dell'Artista, soverchiato dalle committenze. Sul mercato dell'arte, la domanda dei dipinti di Raffaello è sempre stata caratterizzata da valori elevatissimi e questo, naturalmente, è un importante fattore di riflessione da considerare che talvolta può divenire la chiave di volta per l'interpretazione delle vicende attributive. Nel 1754, la "Madonna Sistina" fu acquistata da Re Augusto III di Polonia Elettore di Sassonia per 25 mila scudi d'oro che andarono ai monaci di Piacenza. Nel 1871, la "Madonna Conestabile o del Libro", nonostante i tentativi di trattenere l'opera a Perugia o in Italia, fu acquistata dall'Imperatore di Russia Alessandro II per regalarla alla moglie la zarina Marija Aleksandrovna, per 550 mila franchi, una cifra altissima per il Governo del Regno d'Italia e per la città di Perugia ma che fu ben accetta dal Conte Scipione Conestabile per accettarne la cessione.
Nel 1884, la "Pala Ansidei" fu acquistata da Lord Charles Spencer come regalo per il fratello, il Duca di Marlborough, per poi passare alla National Gallery di Londra per 70 mila ghinee quando ne bastarono 17 mila e cinquecento per il "Ritratto equestre di Carlo I", il capolavoro di Antoon Van Dyck.
Nel 1901, la "Pala Colonna" – oggi conservata al Metropolitan Museum of Art di New York – fu acquistata da John Pierpont Morgan per 500 mila dollari.
Più recentemente, nel 2004, la National Gallery di Londra raccolse 44 milioni di dollari per evitare la vendita della "Madonna dei Garofani", mentre nel 2007 il "Ritratto di Lorenzo de' Medici" è stato aggiudicato per 27,4 milioni di euro: l'autografia di entrambe le opere è da sempre discussa e la seconda era ritenuta la miglior versione di un originale andato disperso.
Curiosamente nel 2009 e nel 2012 due disegni di Raffaello, "Testa di Musa" e "Testa di Giovane Apostolo", hanno trovato un acquirente per 47,9 milioni di dollari ciascuno, i prezzi più alti pagati per opere dell'Urbinate, anche maggiori dei due dipinti sopra ricordati.
"Una sterminata bibliografia si è occupata del mito raffaellesco ed il voler attribuire delle opere alla sua paternità ha portato nel corso dei secoli gli autori a riconoscere la sua mano dove non c'era e a non tenerne conto anche nei casi in cui le carte dicevano il contrario".
Nel 1550, un trentennio quindi dopo la morte di Raffaello, viene data alle stampe la prima edizione de "Le Vite" di Giorgio Vasari – che sarà poi aggiornata e rivista nell'edizione del 1568 – in cui viene dato ampio spazio alla descrizione delle opere e del vivere dell'Urbinate e che costituisce la pietra angolare di tutta la bibliografia specialistica dell'opera di Raffaello, come d'altronde di quella di molti altri Artisti, essendo la più importante pubblicazione di tutta la letteratura artistica del Cinquecento in Europa. Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy, autore anche nel 1826 di un'ancor valida biografia del Sanzio, così dice dell'opera biografica di Vasari a proposito della "Vita" di Raffaello: "…scrisse quella del Sanzio, trent'anni circa dopo la morte di lui, quando fresche erano le rimembranze, le autorità ancor vive, ed i materiali meno sparsi che nol furono poi. Non si può che lodare l'ordine ch'ei vi ha seguito, l'imparzialità ch'ei vi ha mostrata, l'aggiustatezza dei suoi giudizj e delle sue osservazioni". Nella sua vita Vasari – artista lui stesso, già a Firenze nel 1524 per imparare nelle botteghe di Andrea del Sarto e di Baccio Bandinelli – fu in contatto con artisti e letterati ed era amico di molti tra questi, anche di Michelangelo che frequentò a lungo nel suo soggiorno romano e con cui ebbe un intenso scambio epistolare. Dal 1540, dimorante nella Città capitale dello Stato della Chiesa – erano passati solo undici anni dalla morte del Sanzio quando Vasari vi giunse nel 1531 al seguito del Cardinale Ippolito de' Medici ed ancora vivissima era l'eco della presenza e dell'attività del Divin Pittore – iniziò a raccogliere testimonianze e documentazione sulle vite e sulle opere degli artisti operanti in Italia, da Cimabue fino ai suoi tempi.
Data la mole raccolta di tali materiali prese ad ordinarla dal 1542 con l'intento di farne un libro che fu appunto stampato poi nel 1550, dopo averlo scritto con grande rigore critico, ma non prima di aver effettuato nel 1541 un viaggio attraverso varie città degli stati del nord Italia per vedere le opere d'arte poi descritte con l'occhio dell'artista di talento qual era, la cui fama di storiografo ha un po' appannato.
Già con l'intenzione di una seconda edizione, Vasari compì un breve viaggio nel 1563 – da quando entrò al servizio del Duca Cosimo de' Medici, nel 1554, ebbe meno libertà di movimento per il gran numero di commissioni affidategli – nell'Italia centrale del Ducato di Toscana e dello Stato della Chiesa visitando Arezzo, Cortona, Perugia, Assisi ed Ancona al fine di rivedere delle opere per l'accurata revisione delle sue "Vite".
Fu nel 1566 che il Duca Cosimo "diede licenza" a Vasari "di andare a spasso …vedendo …l'opere di diversi eccellenti artefici …perché dall'anno 1542 insino a questo presente 1566 io non avevo, come già feci, scorsa quasi tutta l'Italia, né veduto le dette ed altre opere, che in questo spazio di ventiquattro anni sono molto cresciute, io voluto, essendo quasi al fine di questa mia fatica, prima che io le scriva, vederle e con l'occhio farne giudizio. Per che… ho voluto, senza perdonare a spesa o fatica veruna, rivedere Roma, la Toscana, parte della Marca, l'Umbria, la Romagna, la Lombardia e Vinezia, con tutto suo dominio, per rivedere le cose vecchie e molte che sono state fatte dal detto anno 1542 in poi": una quarantina di tappe tra il mese di marzo e quello di giugno 1566 guidato da amici e corrispondenti, molti dei quali artisti.
"A proposito delle opere di Raffaello Vasari vi prestò molta attenzione nella loro descrizione – come chiaramente è dovuto alle opere di chi in quest'Arte primeggiò al pari di Michelangelo nel disegno e di Donatello nella scultura – che però non collima talvolta con quelle che ad oggi dovrebbero essere".
Questo ampio e faticoso spostarsi per l'Italia degli splendidi Principati fu voluto da Vasari per affinare le sue conoscenze sui suoi colleghi, e spesso amici, contemporanei o che lo avevano preceduto di poco: e non contento di quanto rilevato e descritto partì per un altro, questa volta breve, viaggio alla volta della Capitale pontificia nel 1567 per gli ultimi aggiornamenti ad un testo che diverrà pubblico pochi mesi dopo. E questa "conoscenza" delle opere e degli artisti si aggiungeva a quella dei committenti – per Bindo Altoviti, committente di Raffaello, lavorò a più riprese a Roma ed a Firenze e per i Medici operò gli ultimi venticinque anni di vita – e delle città – fu a lungo a Firenze, Roma e Bologna: difficile quindi, talvolta insostenibile, confutare le sue indicazioni. A proposito delle opere di Raffaello Vasari vi prestò molta attenzione nella loro descrizione – come chiaramente è dovuto alle opere di chi in quest'Arte primeggiò al pari di Michelangelo nel disegno e di Donatello nella scultura – che però non collima talvolta con quelle che ad oggi dovrebbero essere. Studiandone alcune risaltano notevoli incongruità con misure che variano, origini che non tornano e soprattutto qualità esecutiva non degna del Maestro di Urbino che certo Vasari non avrebbe sottaciuto. Lo "Sposalizio della Vergine" oggi conservato alla Pinacoteca di Brera, Vasari lo descrive come una "tavoletta", indicazione difficile da credere riferita a questa per le dimensioni attuali di 170 x 117 centimetri ma la cosa ancora più singolare è che un precedente proprietario Giuseppe Lechi – generale napoleonico che lo aveva prelevato a Città di Castello (altre fonti affermano che fu preso a Trento con la conquista della città dal fratello Teodoro, anch'egli generale al servizio di Napoleone, asportandolo da una chiesa: da dove veniva quindi, se era lo stesso?) – in una lettera al padre Faustino dice "…una pala d'altare larga 2 braccia e mezzo e alta quattro, di trenta figure tra grandi e piccole": l'unità di misura in uso "braccio bresciano” variava da 0,67 a 0,64 centimetri se da panno o da seta e quindi il dipinto doveva essere o 268 x 172,5 o 256 x 160 centimetri.
Misure queste che non coincidono affatto con il dipinto conservato a Brera ma piuttosto sono più vicine a quelle del dipinto con l'analogo soggetto – anch'esso con trenta personaggi dipinti – attribuito a Pietro Perugino e conservato presso il Museo di Caen, le cui dimensioni sono 234 x 186 centimetri ad oggi, misure attuali dopo aver avuto varie traversie che potrebbero essere state causa di danneggiamenti e quindi di modifiche delle dimensioni; ed ancor di più queste misure sono vicine alla tela di Jean-Baptiste Wicar, che ha sostituito lo "Sposalizio" di Perugino nel Duomo di Perugia le cui misure, 275 x 187 centimetri, probabilmente ricordano quelle originarie, soprattutto in altezza, del dipinto del Perugino.
Non a caso verso la metà del XIX° secolo i moderni studi di Storia dell'Arte mettono in dubbio l'originalità delle opere tradizionalmente riconosciute autografe – come la "Madonna dell'Impannata" o la "Visione di Ezechiele" di Palazzo Pitti – che infatti mostrano molte lacune nella loro storiografia e che, seppur celebrate da Vasari per le loro qualità artistiche, divengono artificio di collaborazione più o meno estesa.
A proposito di questi due celebri dipinti c'è da notare che essi sono stati legati al Gran Duca di Toscana, ed ai suoi eredi, proprietari in perpetuo – insieme a tutte le Collezioni d'Arte medicee –, destinati ad "ornamento della Città e dello Stato" per volontà dell'Elettrice Palatina Anna Maria Luisa de' Medici che stabilì questa destinazione sia nel Patto di Famiglia del 31 ottobre 1737 che nelle Sue volontà testamentarie del 5 aprile 1739: oggi questi due dipinti sono in possesso della Repubblica Italiana che, contravvenendo alla "donazione modale", vincolante e perpetua, le ha inviate a Roma per la Mostra 2020 del Cinquecentenario della morte dell'Artista allestita presso le Scuderie del Quirinale, ma questa è un'altra storia.
Tornando alle opere di Raffaello o Vasari si è sbagliato o gli originali sono scomparsi o non riconosciuti: noi propendiamo per la seconda ipotesi e ci torneremo per verificarla.
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